| articolo presso da tv e sorrisi
Quarantotto ore sono, secondo i calcoli della polizia, il tempo dopo il quale un latitante può diventare introvabile per sempre: sono quindi il pochissimo tempo utile che le apposite sezioni Catturandi, presenti in ogni questura, hanno a disposizione per entrare in azione, con metodi e agenti speciali, e assicurare alla giustizia evasi e ricercati. È evidente che la vita di una squadra di polizia stabilmente sottoposta a una formidabile pressione è il soggetto ideale per una fiction, specialmente se appartenente al filone nostrano degli eroi in divisa: un catalogo di commissari, carabinieri, distretti di polizia e reparti di investigazione che trova il pubblico italiano sempre interessato ai delitti e alle pene. Parte dunque sotto i migliori auspici «48 ore», la nuova serie in sei serate e dodici episodi prodotta da Angelo Rizzoli per Mediaset. Una serie a tinte forti che trova la sua ispirazione in modelli duri (per quanto edulcorati per la prima serata generalista) come il truce «The Shield» e il complesso «24». Nessuna rievocazione di atmosfere d’Oltreoceano però: l’azione è calata a fondo nella realtà italianissima di Genova, una ambientazione iperrealista che impasta sfarzi cadenti della vecchia Europa con architetture d’avanguardia, ricami intricati di vicoli di malaffare con i fasci di luce dei night dove si è annidata la nuova «mafiya» russa. Su questo sfondo, che trasforma l’antica repubblica marinara in una cruda metropoli sgranata come un rosario su quaranta chilometri di Riviera, si sviluppano le storie di un gruppo di poliziotti e delle loro famiglie: mogli, figli, fidanzate, amici anch’essi drammaticamente coinvolti nelle vicende. Ma anche i criminali sono rappresentati nel loro lato umano, nel loro passato, negli eventi che li hanno spinti a scegliere il male. «Per catturare il latitante, i poliziotti devono entrare nella mente e nel cuore del fuggiasco, indovinarne i pensieri, i sogni e le pulsioni, intuire che cosa lo muove prima che si allarghi il raggio della sua fuga» anticipa Eros Puglielli, il giovane regista. «Questa lotta contro il tempo costringe i nostri eroi a confrontarsi anche con i propri sogni, paure e debolezze, perché l’unico modo di conoscere la coscienza di un altro è imparare a conoscere e dominare la propria». Su questo ambizioso impianto, i protagonisti sono ammantati di grintoso carisma a partire dal leader, un Claudio Amendola che presta la sua orgogliosa, stagionata virilità a Diego Montagna, vicequestore arrivato al Nord dopo battaglie di mafia a Palermo e adorato dai suoi uomini. «Montagna è il poliziotto di grado più alto tra quelli che ho interpretato» dice Amendola. «Finora ero stato al massimo commissario. Ora ho fatto carriera, cosa che mi fa piacere e mi preoccupa, perché con il grado sale anche l’età. Montagna è una figura carismatica, un vero capo, con un passato importante e una grande etica che ne fa un punto di riferimento per i suoi e il centro di un’azione corale. Un eroe, insomma» sintetizza l’attore che prosegue descrivendo nei dettagli la sua creatura: «Montagna è un uomo che dà il cento per cento della vita al lavoro. Quando rientra in famiglia emerge a fatica dai suoi pensieri. L’unica volta, dopo molti rinvii, che parte con moglie e figli per una settimana di vacanza, si rompe le scatole». La confezione realistica della serie lo ha particolarmente convinto: «Mi piace questa polizia più dura, più veritiera, meno patinata. Secondo me, tutti i tentativi che stiamo facendo in Italia negli ultimi anni tendono al modello del telefilm americano, a partire da “Nypd Blue” fino a “The Shield”, una serie fantastica, eccezionale, con una grande fotografia, anche se con eccessi di durezza certo non adatti a tutto il pubblico. Noi siamo rimasti dentro i limiti, ma la grana è più ruvida del solito. E poi c’è molta azione, decisamente la cosa più divertente del nostro mestiere. Ho una buona dimestichezza con il mio corpo e me la cavo piuttosto bene nelle scene spericolate. E siamo un bel gruppo. Credo che poche volte in televisione si siano visti tanti attori bravi insieme». Claudia Gerini, entusiasta di interpretare finalmente un ruolo d’azione, è il commissario Marta De Maria: «Una tosta. Fa parte di una squadra di uomini, ma non è un maschiaccio: abbiamo volutamente fatto in modo di mantenere la sua femminilità, nei gesti, nel parlare e negli abiti. È ferma, coraggiosa, caparbia, volonterosa. Come tutti gli altri, è impegnata nella ricerca della verità: le indagini all’esterno del commissariato, la cattura dei latitanti occupano una gran parte del telefilm. Ma, accanto a queste, c’è la parte dell’introspezione. L’uso, specie da parte di Marta, dell’intuito per ricostruire la psicologia del ricercato. Tutti gli episodi sono accomunati dalla ricerca del superlatitante, ma in ogni singolo episodio c’è un caso che inizia e si conclude. Noi della squadra ricostruiamo a 360 gradi la persona del latitante: il suo passato, dove ha vissuto, perché sta scappando, dove potrebbe andare, chi può averlo incontrato o aiutato. Entriamo a fondo nella sua vita con indagini, intercettazioni telefoniche. Io sono uno dei poliziotti che vanno sul campo, a interrogare, a guardare negli occhi le persone cercando di capire chi dice la verità, chi ha qualcosa da nascondere». Questo stesso metodo dei poliziotti delle squadre speciali, Gerini l’ha applicato anche al suo personaggio, ricostruendo a tutto tondo anche la sua vita precedente: «Marta è la figlia di genitori avanti con l’età, è stata iperprotetta. Era una bambina delicata, sofferente d’asma, i suoi l’hanno cresciuta evitandole giochi in giardino o sport impegnativi, preferivano leggesse o stesse tranquilla. Per reazione Marta entra in polizia, scegliendo di proposito un lavoro fisicamente pesante e anche doloroso per le vicende che tratta». Il personaggio della Gerini ha un’altra valenza, capitale in ogni film: è la protagonista della storia d’amore. «Quando inizia la serie, Marta sta per sposarsi con un giudice. Ma all’ultimo momento manda all’aria tutto, rinunciando al perfetto matrimonio borghese con l’uomo approvato dai suoi, il ragazzo posato di buona famiglia, di buoni principi. Invece manda all’aria tutto e, dopo pochissimo, entra in scena, cioè nella sezione Catturandi, quest’uomo completamente diverso, il poliziotto, interpretato da Adriano Giannini, che si trova a suo agio per le strade, si veste da hippy, vive in una casa disordinata. È anche il tipo affascinante, latino, che piace molto alle donne: tra loro inizia subito una relazione. Poco dopo, una morte a sorpresa, con un grande colpo di scena, rischia di separarli. Per loro è tanto più difficile perché il tutto avviene dentro la squadra, una comunità che vive tutto il tempo insieme, in spazi ristretti e in condizioni difficili, di grande intimità». Le storie dei buoni sono ovviamente avvinghiate a quelle dei cattivi, perché anche i malvagi tengono famiglia, come vedremo nei singoli episodi: il mafioso e la terrorista evadono per stare con i figli; l’uxoricida si innamora della guardia carceraria; il serial killer della giornalista che l’ha intervistato in carcere; il macedone clandestino della signora dell’alta società. Il tutto in un vortice di inseguimenti nei vicoli e sul lungomare, di improvvise morti cruente, di continui colpi di scena sottolineati da un montaggio spezzato che esaspera contrasti e sorprese. «Le cose non sono quelle che sembrano. Strada facendo, si scopre la loro vera natura, mentre la macchina da presa segue l’emotività» conclude Puglielli. Il pubblico dirà molto presto se la squadra di polizia genovese piace quanto gli eroi in divisa già abbonati al piccolo schermo.
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